«Preferisco ricordare il presente e vorrei ricordare il futuro, naturalmente». Questo è stato l’incipit che più di tutto ha racchiuso il pensiero di questo poliedrico studioso che, durante la sua lunga vita (è scomparso il 2 marzo dello scorso anno), si è cimentato con svariate forme artistiche, sempre con grande curiosità e alieno dalle convenzioni codificate. Lo ha fatto senza timore d’impurità, cosa alquanto rara tra gli artisti in genere, professando quel carattere di totalità dell’espressione artistica (“globalità della nostra attività gnoseologica”) che connette l’arte con la filosofia, la letteratura con la psicoanalisi e le differenti discipline chiamate a integrarsi fra di loro. In questo carattere di “totalità” Dorfles ha attraversato due secoli, ne ha assaggiato il sapore e ha lasciato, come testimonianza del suo percorso, decine di libri e centinaia di articoli, oltre ovviamente alla sua pittura visionaria, surreale/metafisica, dove emergono figure proboscidate, lumaconi, crisalidi e pipistrelli oltre a un campionario di esseri fantastici che ci catapultano ineluttabilmente nel suo mondo interiore. Un mondo forgiato da innumerevoli esperienze artistiche a contatti con un’umanità che negli anni avrebbe fatto parlare di se. Sin da adolescente la sua inarrestabile curiosità si manifestava nei modi meno prevedibili, un libro nella piccola e polverosa libreria antiquaria di via San Nicolò provocò la bile del vecchio proprietario, Umberto Saba, che alla richiesta di un magnifico esemplare settecentesco del Fedone di Platone esclamò infastidito: «Non xè par ti, non te pol capirlo…». Nei mesi successivi l’adolescente Gillo, divenuto amico di Linuccia, assaporava in casa Saba le deliziose marmellate della moglie Lina. Anni in cui insieme a Bobi Bazlen (“Devo a lui la mia iniziazione letteraria mitteleuropea di autori come Kafka, Wedekind, Splenger, Rilke e Freud”) frequentavano la casa del melanconico impiegato Ettore Schmitz alias Italo Svevo (“Saba aveva un carattere pessimo, poco espansivo, presuntuoso, nevrotico. Svevo era l’opposto, impacciato, affabile, simpatico…”) grazie all’amicizia con le ragazze della famiglia Veneziani. Ed è proprio in tale frangente che stringe amicizia con Montale e Debenedetti, che spesso facevano visita alla villa degli imprenditori triestini e soprattutto si intrattenevano con Svevo sotto gli occhi stizzosi della suocera, che considerava la sua passione letteraria una perdita di tempo. Interessante ricordare che fu proprio per merito di Montale se le vecchie copie dei primi due romanzi di Svevo furono spedite da Bazlen e da Dorfles al critico francese Benjamin Crémieux, che fu il primo a favorire la celebrazione internazionale del romanziere triestino.
Poi gli anni della guerra (“Giovani muoiono a migliaia. L’aura della Terra è stipata da queste anime staccate brutalmente dai loro corpi, tutte tese verso una vita terrena che hanno dovuto abbandonare all’improvviso, spezzata prima del tempo.”) con i suoi saccheggi e bombardamenti che uccidono e spargono il terrore in quasi tutte le città italiane. Il dopoguerra lo trova alle prese con nuove amicizie tra artisti, musicisti e scrittori emergenti (Fontana, Munari, Toscanini, Ginzburg, Pavese, Vittorini…) che lo portano a viaggiare per l’Europa e poi nelle Americhe dove espone i suoi lavori pittorici in sintonia con il Movimento d’Arte Concreta (MAC) fondato assieme a Dorazio, Fontana, Garau, Mino Guerrini, Mazzon, Monnet, Munari, Perilli, Soldati, Sottsass e Veronesi (“…basata soltanto sulla realizzazione e sull’oggettivazione delle intuizioni dell’artista, rese in concrete immagini di forma-colore, lontane da ogni significato simbolico, da ogni astrazione formale, e mirante a cogliere solo quei ritmi, quelle cadenze, quegli accordi, di cui è ricco il mondo dei colori”) i cui tratti fondanti derivano sia dal futurismo (Giacomo Balla organizzò una mostra antologica dei concretisti a Milano nel 1951) che dall’influenza di grandi artisti, quali Von Doesburg, Mondrian e Arp. Uno dei primi recensori della pittura di Dorfles fu proprio Sergio Solmi, allora uno dei più referenziati critici letterari italiani, lo stesso che più tardi l’avrebbe incoraggiato a cimentarsi con i versi. Questi furono raccolti in un volume antologico intitolato Prima antologia di Poeti nuovi uscito nel 1950 per le Edizioni della Meridiana (casa editrice fondata nel 1947 da Giuseppe Eugenio Luraghi con l’intento di pubblicare sia i grandi maestri già affermati come Montale, Ungaretti e Sinisgalli, sia i giovani talenti della poesia e della prosa d’arte, da Fortini a Pasolini).
Gillo Dorfles anche autore di versi? Ebbene si. D’altronde qualche tempo prima aveva sottoposto i suoi versi allo stesso Saba, che da pochi mesi era ritornato a vivere nel capoluogo giuliano. Dorfles ricorda cosi il bizzarro incontro: “Saba afferra con stizza le mie poesie, che gli ho portato da leggere, affermando a priori che non possono valere niente. Invece, con mio stupore, nel leggerle brontola un po’ seccato: «Bel, bel, ti xe molto abile…». Poi però si corregge: «Ti manchi de cuor, no xe vera poesia. Però podessi aver successo per la modernità dei versi»”.